lunedì 26 gennaio 2009

Calvino e il confronto con la modernità del Furioso


“Il Furioso è un libro unico nel suo genere e può essere letto senza far riferimento a nessun altro libro precedente o seguente; è un universo a sé in cui si può viaggiare in un lungo e in largo, entrare, uscire, perdercisi”. Così Italo Calvino, nella premessa del suo libro L’Orlando Furioso raccontato da Italo Calvino”, definisce la più importante opera di Ludovico Ariosto: parla del poema come un mondo nel quale si può entrare e uscire in qualsiasi punto e scoprire ogni volta un intreccio nuovo, diverso ad ogni lettura; la grandezza dell’opera sta, infatti, proprio nella sua struttura a labirinto, in cui davvero si rischia di non riuscire più a ricollegarsi alla storia nel suo complesso. Proprio per questo motivo, Calvino ha deciso di scrivere il suo libro: per raccogliere in 310 pagine, in 22 capitoli, l’ampia e articolata narrazione ariostesca, divisa in 46 canti. L’intento dello scrittore è stato anche quello di tradurre, in un linguaggio più moderno, il testo del Furioso per meglio comprendere un italiano cinquecentesco che, pur nella sua semplicità e somiglianza al nostro, in alcune parti può rimanere oscuro se non si hanno adeguate conoscenze lessicali. L’operazione di Calvino non diventa, però, una normale parafrasi: egli propone i versi dell’Ariosto, precedendoli da un riassunto in prosa efficace e appassionato (d'altronde egli è un grande estimatore dell’opera e del suo autore), in modo che il lettore si trovi avvantaggiato con un’idea sommaria alle spalle di quello che il poeta cinquecentesco racconta. Alla fine del libro, inoltre, è riportato un vasto apparato di note, che spiegano e forniscono sinonimi per le espressioni ariostesche più difficoltose da interpretare.

Calvino non racconta l’intera vicenda: si limita a selezionare, viaggiando a zig-zag tra i meandri del poema, le parti più importanti, quelle che consentono di ripercorrere la storia nel suo complesso, senza però escludere completamente i particolari, che pure sono necessari. Egli, inoltre, non segue fedelmente lo svolgersi dei fatti così come sono riportati nel poema originale, ma divide gli episodi per temi, personaggi ed eventi, affinché la narrazione non sia spezzata in alcune parti, come effettivamente Ariosto fa: il tutto sempre per andare incontro al lettore, fornendogli una versione del Furioso più agevole da consultare.

L’apporto più prezioso che fornisce l’opera consiste però nelle già citate parti in prosa a supporto dei versi dell’Ariosto: qui l’autore non si limita a riassumere e a meglio specificare i versi stessi di volta in volta proposti: altrimenti avrebbe finito per considerarli meno importanti, costituendo essi il poema originale e quindi ciò su cui si dovrebbe concentrare la maggiore attenzione, e quindi il suo libro non si sarebbe differenziato in niente da un qualsiasi riassunto dell’opera. Oltre a questo, infatti, lo scrittore commenta quanto avviene, si sofferma sullo stato d’animo di un personaggio o sulla descrizione di un paesaggio, approfondisce i temi lanciati dai versi originali con delle riflessioni quasi filosofiche, ironizza, esattamente come il poeta del Cinquecento, su alcune situazioni rendendole bizzarre, enuncia le particolari tecniche di narrazione e di stile utilizzate dall’Ariosto. La sua prosa è insomma di doppia natura: una prosa narrativa e una critica, a cui ovviamente corrisponde un doppio contributo dell’autore. Contributo che permette al lavoro di Calvino di essere non soltanto un’opera sull’opera, ma un vero e proprio testo autonomo.

Non mancano anche i commenti personali, che si soffermano più su dei particolari, sia sul poema, come la definizione citata all’inizio, che sul suo autore. Su Ariosto, Calvino mette in luce le correlazioni tra lui e i suoi personaggi: fa, ad esempio, un paragone con Astolfo, insolito rispetto ad altri più tradizionali che vedono il poeta rispecchiarsi in questa sua figura: “Mai che ci riveli nulla di sé, di cosa pensa e cosa sente, eppure l’anima ariostesca é riconoscibile soprattutto in lui, esploratore lunare che non si meraviglia mai di nulla, che vive circondato dal meraviglioso e si vale di oggetti fatati, libri magici, metamorfosi e cavalli alati con la leggerezza di una farfalla”; con queste parole, Italo Calvino vuole sottolineare quasi l’assenza di Ariosto dal suo poema, almeno per quanto riguarda le vicende in senso stretto, poiché, proprio come al salvatore del senno di Orlando sembra normale il paesaggio lunare e tutto ciò di magico di cui fa uso, non prova particolari emozioni per la materia da lui stesso narrata, o almeno non le rende note.

Per quanto riguarda i personaggi, Calvino si sofferma a descriverli singolarmente, ma fa anche affermazioni di carattere generale su di essi; ci propone una possibile classificazione: “Ci sono quelli costruiti di pasta fatata, che più gli fioccano addosso i colpi di lancia e di spada più si temprano… e ci sono quelli, non meno nobili e non meno valorosi, che essendo costruiti di pasta umana, ricevono ferite che sono ferite vere, e ne possono morire”. Calvino qui, oltre alla semplice distinzione in due categorie dei personaggi ariosteschi, marca l’intento di fondo di Ariosto: quello di descrivere i suoi personaggi focalizzando l’attenzione più sulla dinamicità dell’azione che sulla creazione di complesse psicologie; ciò che, infatti, importa al poeta non è creare personaggi con caratteri veri e propri, ma stabilire un’intensa relazione tra ogni personaggio e gli altri, cosicché possa meglio costruire attorno a questo sistema di rapporti il complesso intreccio dell’opera. Di qui la decisione di attribuire ad ogni figura un solo aspetto dell’immensa psicologia umana e la distinzione in due semplici categorie, senza naturalmente dimenticare le maggiori specificazioni proprie dei personaggi più importanti, come afferma lo stesso Calvino.

E infatti, il nostro scrittore non si dimentica di commentare anche le singole personalità: “Orlando diventa, se non un vero e proprio personaggio, certo un’immagine poetica vivente, quale non era mai stato nella lunga serie di poemi che lo rappresentavano con elmo ed armatura.”, dice a proposito di uno dei principali personaggi del Furioso, a sottolineare il distacco di Ariosto dalla tradizione cavalleresca. Calvino, poi, evidenzia la scarsa importanza che ricoprono diversi personaggi che invece nei poemi cavallereschi hanno avuto in generale sempre un qualche posto in prima fila: parla di Ferraù, Sacripante e Rinaldo come cavalieri non necessari per l’economia della narrazione. Infine, non manca di far notare il ruolo che ricopre il destino nelle azioni stesse di alcuni personaggi: è preziosa, a questo proposito, la descrizione che elabora di Ruggiero: “Duro destino è l’avere un destino. L’uomo predestinato avanza e i suoi passi non possono portarlo che là…nel caso che gli astri abbiano decretato, come a Ruggiero, un matrimonio d’amore, una discendenza gloriosa, e pure ahimè una fine prematura…”.

L’opera in sé, per concludere, soffermandosi più su un punto di vista di scelte stilistiche e narrative, viene definita “aperta”, forse anche con un piccolo spirito critico: non ha un vero e proprio inizio, presentandosi come la continuazione dell’ Orlando Innamorato del Boiardo, ma non sembra nemmeno avere una fine, concludendosi con un ennesimo combattimento. Ma, a parte questo, non si può certo dire che Calvino non si sia divertito a farci apprezzare, grazie alle sue doti di scrittore e appassionato di letteratura, il Furioso.

Potrebbe essere interessante per il nostro dibattito di oggi anche un confronto con un altro libro di Calvino, Il castello dei destini incrociati. Esso contiene due sezioni: la prima intitolata appunto Il castello dei destini incrociati, mentre la seconda è intitolata La taverna dei destini incrociati. In entrambe, il nostro scrittore si diverte a comporre le storie di diversi personaggi semplicemente combinando tra loro dei tarocchi, che rappresentano sia figure umane che oggetti: “Quando le carte affiancate a caso mi davano una storia in cui riconoscevo un senso, mi mettevo a scriverla”, dice. Un’idea, questa, conforme alla sua genialità. Egli fa raccontare ai personaggi stessi, riuniti in una taverna, quanto è loro accaduto, proprio attraverso le carte, avendo per magia perso la parola. Le carte, che sono le stesse a disposizione di tutti, fungono così da elemento unificatore tra le varie vicende: vengono incrociate in diverso modo a seconda della storia, creando così “un numero finito di elementi le cui combinazioni si moltiplicano a miliardo di miliardi”, come ci suggerisce Calvino medesimo. Questi descrive le diverse storie in modo particolareggiato e preciso, riservando anche spazio per delle accurate riflessioni sulle singole situazioni e sui dettagli delle figure, proprio come, nel Furioso da lui raccontato, si sofferma su particolari aspetti del poema e dei suoi personaggi. Anche se il fatto che i tarocchi siano uguali per ogni storia comporta una lieve ripetitività, il libro è certamente ricco di originalità.

A che scopo un confronto di questo tipo tra due libri dello stesso autore? In realtà, il paragone non si esaurisce tra i due libri, ma essenzialmente tra Calvino e Ariosto: nel Castello dei destini incrociati il primo si comporta esattamente come il secondo nell’Orlando Furioso. In veste di narratore esterno, Calvino, seppur in maniera più semplice e ordinata di Ariosto, poiché divide le storie a seconda del protagonista senza mescolarle assieme, ordisce e mette insieme tra loro, affidandosi alle possibili combinazioni dei tarocchi, le avventure dei personaggi, i loro destini, fornendo anche talvolta maggiori specificazioni, giudizi, commenti. Non si avvicina forse all’operato dello scrittore cinquecentesco? Anzi, gli interventi sono qui più numerosi, volti proprio a guidare il lettore tra le diverse trame. In questo modo imita quanto egli stesso ha realizzato nel Furioso da lui interpretato e commentato, il cui intento principale è, come abbiamo detto espressamente all’inizio, quello di accompagnare gli appassionati del poema ariostesco in una lettura di questo adeguatamente semplificata. Ancora una volta possiamo distinguere quindi un doppio Calvino: uno narratore e tessitore di racconti (assimilabile ad Ariosto), un altro guida e commentatore (paragonabile al Calvino del primo libro considerato).

Un altro collegamento può essere riscontrato, stavolta con il poema ariostesco, e riguarda i temi trattati nel Castello dei destini incrociati, in molte storie affini a quelli celebrati da Ariosto, ma anche con alcune differenze. Una, ad esempio, risiede nella diversa trattazione del tema cavalleresco: Calvino non ricorre mai all’ironia, di cui invece si serve il poeta cinquecentesco, proprio in quanto cinquecentesco, nel descrivere i valori e i personaggi, anzi quasi si ricollega alla tradizione medievale enfatizzandone, in alcuni casi, molte caratteristiche positive, come la disponibilità dei cavalieri ad aiutare i più deboli. Il codice di comportamento cavalleresco gode quindi di una diversa considerazione e costituisce una delle tematiche principali delle vicende narrate, assieme ad un altro tema specifico del Furioso, l’amore, e ad uno invece nuovo, il denaro. Entrambi creano nuovi eventi e nuove situazioni, poiché implicano la ricerca o di una corrispondenza all’amore o di altro denaro; tale ricerca, esattamente come avviene nel poema di Ariosto, risulta vana e vuota, di un qualcosa che non si riesce a trovare. Amore e denaro possono anche portare a sofferenze, in particolare il secondo, come nella storia del Ladro di Sepolcro.

Il castello dei destini incrociati può essere dunque considerato come un ponte tra i due Orlando Furioso, quello originale e quello di Calvino, permettendoci meglio di capire quali siano le connessioni tra questi ultimi due, già inizialmente sviluppate. In particolare, sono approfonditi gli aspetti fondamentali del poema di Ariosto che lo stesso Calvino aveva messo in luce nel suo primo libro, senza però fornirci dettagliate indicazioni sulle sue idee in proposito, indicazioni che invece emergono nel secondo libro, in particolare riguardo al mondo cavalleresco.

Il titolo di questo saggio evidenzia un altro aspetto da approfondire: la modernità del Furioso. In che senso si può parlare di modernità per un autore del Rinascimento, epoca ancora distante dall’età moderna in sé? Ci si riferisce al fatto che Ariosto va oltre la sua epoca, quasi come se avesse previsto che l’uomo dopo di lui sarebbe entrato in nuove epoche culturali, più vicine alla nostra. Ecco come l’Orlando Furioso rispecchia direttamente il periodo storico in cui è stato scritto e si proietta direttamente verso il futuro.

Prima di tutto, attraverso una nuova concezione della tradizione cavalleresca, locuzione che finora è stata nominata tante volte ma di cui non è stato dato ancora conto sotto il profilo ariostesco. Ariosto prende in considerazione le sue numerose fonti medievali, appartenenti al ciclo bretone e carolingio e alla tradizione dei cantari, non per passione dei valori che le caratterizzano, o per deridere questi stessi valori ormai scomparsi dalla società, ma unicamente per creare un pretesto letterario, dietro il quale vuole esprimere invece valori tipici della sua epoca. Il poeta è ben consapevole della distanza che lo separa dalla società e dalle virtù cavalleresche e vuole trasmettere anche al lettore del Furioso questa distanza, in diversi modi: in primis rielaborando, in maniera del tutto personale e soggettiva, le vicende e i personaggi della tradizione precedente, già noti ma con caratteristiche ben diverse (e in questo consiste in gran parte l’originalità del poema); dunque, utilizzando artifici di stile, come il vasto uso che fa dell’ironia, con cui si permette di guardare il passato dei cavalieri con una certa superiorità. Una revisione della letteratura della cavalleria tale che non si può non parlare di rottura con il passato, anche con quello recente dell’Orlando Innamorato del Boiardo, revisione che gli è permessa dallo stesso fatto che, ormai, il mondo espressione di quella letteratura non esiste più da tempo.

La rielaborazione ariostesca non si esaurisce però nella narrativa, ma anche inevitabilmente nei temi: il motivo principe della tradizione cavalleresca, la guerra, è messo, come la tradizione stessa, in secondo piano. Ad Ariosto non importano le vicende belliche tra cristiani e saraceni, la descrizione delle battaglie; gli interessano invece i singoli personaggi, le loro storie e i loro pensieri, che nel caos della guerra non possono che rimanere emarginati. Esalta quindi il valore del singolo individuo, in piena sintonia con la cultura rinascimentale. A sostegno di ciò, lascia maggiore spazio a temi profondamente umani: l’amore, che porta gioie e sofferenze, l’amicizia, la fedeltà, la follia, che vanno a sostituire, in parte o in tutto, il coraggio, l’eroismo, la forza, il valore in battaglia. Inoltre, decide di mantenere alcune tematiche, come la magia (caratteristica del ciclo bretone) e la ricerca, la queste, che però cambiano natura. Così, il motivo del magico non è un semplice elemento fantastico, ma è di doppia natura: diventa un mezzo di inganno e quindi di potere, ma anche creatore di arte, che Ariosto configura come l’espressione del dominio dell’uomo sulla realtà e della sua capacità di autodeterminazione. La ricerca, invece, non impegna più un cavaliere in un lungo percorso compiuto per trovare la propria identità, percorso che comunque avrà una fine; si trasforma in un girovagare vano e inappagato, per inseguire nient’altro che illusioni.

Revisione anche dei personaggi, intesi come uomini, ed è qui che fa i passi più grandi, staccandosi non soltanto dal mondo della cavalleria: l’uomo di Ariosto non è solo l’uomo rinascimentale, ma è più moderno, più vicino a noi, perché il poeta sa che si faranno passi avanti rispetto al suo presente. Un uomo nuovo perché autonomo, e non più solo padrone del proprio destino, preda del caso e non di una Provvidenza.

È moderna anche la concezione che Ariosto ha di sé (e qui spostiamo il nostro campo d’indagine): quella di un demiurgo, di un plasmatore della sua opera, che diventa necessariamente una creazione, senza che l’attingere a delle fonti possa comprometterne l’originalità. Come è avanzata l’idea di rivolgere la propria attenzione al lettore, con interventi in prima persona per guidarlo e ricordargli che nel Furioso tutto è irreale. Ma il lettore non è solo la corte estense in cui il poeta opera: il poema va oltre questi confini, l’autore lo vuole diffondere; di qui la decisione di adottare una lingua in grado di imporsi su tutti i dialetti italiani, il toscano (secondo le teorie espresse da Pietro Bembo). Infine, è nuovo anche il genere letterario del Furioso, che si configura come il prototipo del romanzo moderno che, pur partendo dalla materia cavalleresca, ne dichiara allo stesso tempo la fine.

Per tutti queste ragioni, il salto in termini di tempo, la proiezione verso il futuro che Ludovico Ariosto e il suo poema compiono non è di poco conto. Se un autore contemporaneo come Calvino li ha presi in considerazione (e non solo per ammirazione letteraria) e li ha esaminati con cura, vuol dire che anch’egli li ha trovati più vicini a noi di quanto l’apparenza e il tempo che ci separa da loro potrebbero farci credere.



Stefano Testoni

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