1)Della struttura
La struttura dell’Orlando Furioso è inesistente. Inesistente se con struttura si vuole intendere uno schema stabile e compiuto, un volume solido e immobile.
Si potrà obbiettare, certo, che al Furioso appartiene la stupefacente peculiarità di essere un poema a sé stante e di poter essere letto indipendentemente dai suoi precedenti cavallereschi e che perciò l’opera di Ariosto sia da considerarsi strutturalmente autonoma. Questo peraltro è uno egli aspetti che per primi vengono sottolineati da Calvino nel suo commento al poema (quasi a scusare i lunghi preamboli informativi della presentazione), ed è certamente vero. Ma proprio nel seguire le linee guida di Calvino non si può non notare che è un altro il tratto caratterizzante che viene da lui individuato: è il movimento.
Movimento “errante”, a zigzag, spezzato e intrecciato che contrassegna non solo lo spostamento dei personaggi al’’interno del poema con i loro incontri, duelli e separazioni, ma anche l’evolversi e l’involversi dei canti stessi.
Il racconto può in questo modo essere ampliato anche dal suo interno, come dimostra l’aggiunta attuata dall’Ariosto tra le edizioni del Furioso del 1521 e del 1532 che portò il numero dei canti da 40 a 46, e la struttura, se di struttura vogliamo parlare, rimane perciò aperta: Esistono, sì, tre pilastri tematici fondamentali (l’insano amore di Orlando per Angelica, le vicende di Bradamante e Ruggiero e lo sfondo della guerra tra Carlo Magno e Agramante) ma attorno a questi si avviluppa un tal numero di vicende ed episodi che le tre colonne portanti non paiono ergersi parallele e salde, ma talvolta toccarsi e intrecciarsi e talvolta divergere l’una dall’altra.
Una costruzione, questa, ben lontana dai solidi edifici letterari precedenti, come ad esempio la Divina Commedia , ma caratteristicamente non definita e circoscritta.
2)Del Castello
L’accostamento tra l’Orlando Furioso e il Castello dei Destini Incrociati avviene già dal primo incontro con il testo di Calvino, a causa della comune ambientazione e del bagaglio di immagini cavalleresche di castelli, dame e cavalieri a cui attingono entrambi gli autori.
Il processo di avvicinamento tra le due narrazioni sembra giungere a compimento nel momento in cui Calvino inserisce tra i personaggi approdati nel suo castello lo stesso Orlando e il paladino Astolfo, ma ci sono ancora numerose analogie individuabili nei due libri. Prima fra tutte l’intreccio delle vicissitudini dei personaggi, che in Calvino è rappresentato anche a livello grafico dal disporre i tarocchi sulla tavola, e la riduzione dei protagonisti agli stereotipi di se stessi per privilegiare invece l’aspetto narrativo.
Elemento che a prima vista pare però non assimilabile è la questione dello spazio. Come poter comparare, infatti, il circoscritto palazzo calviniano, i cui avventori si riuniscono tutti attorno a un tavolo, con la sconfinata geografia ariostesca, teatro di viaggi mirabolanti e intricati percorsi?
Si consideri però il castello-taverna di Calvino solo nel suo archetipo di cornice narrativa, modello ricorrente dalla dimora campestre del Decameron sino al cimitero sulla collina dell’antologia di Spoon River, e si osservi poi che nel Furioso non esistono caratterizzazioni spazio-temporali realistiche e assolute, ma sembrano essere gli spazi ad adattarsi attorno all’uomo, il vero centro della narrazione. Si giungerà in questo modo alla conclusione che il sontuoso paesaggio ariostesco è poco più di una cornice, è una ricca scenografia che ha il compito di far risaltare le vicende umane sul primo piano.
In fondo la “mappa del mondo che si dispiega tutta contemporaneamente sotto l’occhio del lettore” (L’Orlando Furioso raccontato da Italo Calvino, commento al canto X) non è affatto dissimile al dispiegarsi dei tarocchi sul tavolo del castello.
3)Della modernità
L’Orlando Furioso non poteva non essere considerato un’importante espressione della modernità. Anche prescindendo dagli sviluppi letterari successivi, dai Tre Moschettieri di Dumas e dal Don Chisciotte di Cervantes, e ignorando per un attimo l’attenzione di Ariosto al punto di vista del lettore e ai suoi gusti, tratto che lo avvicina allo scrittore moderno. Tralasciando dunque questi elementi e tutto il superfluo, cosa resta?
Gli archetipi.
Archetipi magari poco vari, ma talmente ampi da racchiudere in sé, se sapientemente combinati, tutte le possibilità dell’umano.
Uomini più o meno valenti, audaci, aggressivi o leali; donne coraggiose, indipendenti, remissive o innamorate; interventi esterni bonari o maligni: tanto basta per dar vita ad infinite combinazioni e conseguenti storie dall’apparente originalità.
Ecco perché le storie di Ariosto appaiono così moderne e così simili a quelle scaturite dai tarocchi: permettono una subitanea immedesimazione, una quasi automatica trasposizione dei valori a noi contemporanei, che si vestono d’abiti d’epoca.
Il merito di Ariosto sta nell’aver colto l’archetipo più ampio, l’uomo che insegue i suoi vani desideri.
E forse per questo motivo, o forse per giocosa ironia del fato, il racconto degli archetipi è diventato l’archetipo dei racconti.
Elisa Sotgiu
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